Riallacciandomi al post precedente, vorrei introdurre una riflessione sulle degustazioni di vino; come si fanno, come se ne scrive. Nel mio libro Social Media Wine l’ultima parte è un’appendice che prende in prestito alcuni termini della scheda di degustazione Ais (ma ne potrete trovare di simili anche in quella Onav o Fisar) e li analizza. Perché prima di tutto, per parlare di qualcosa, bisogna avere le parole. Les mots pour le dire, per citare un libro che ho tanto amato all’università.
Per esempio, le sfumature di colore per molti sono un rebus. La parola “molle”, riferita ai tannini, può creare confusione. Le parole che s’imparano (a memoria!) sulla scheda Ais il primo anno di corso sono la base per descrivere le degustazioni. Il punto di partenza per i futuri wine writer. Perché – e qui sono d’accordo, e vale un po’ per tutto –
Per trasgredire alle regole bisogna prima impararle.
Per scrivere di vino in maniera personale, creativa, originale, senza seguire pedissequamente lo schema della scheda, quella scheda bisogna prima mandarla a memoria. E poi distruggerla, d’accordo. Ma solo poi.
Ma come si scrive e come si parla di vino in Italia? Dipende, ovviamente. Diciamo che ormai e per fortuna i sentori di pelliccia di volpe bagnata abbandonata accanto a del cuoio vissuto e a della legna umida non si leggono (quasi) più. Ci sono certo ancora dei bizantinismi tipici del (mal)uso della nostra lingua. Pipponi inverosimili, a dirla tutta. Virtuosismi improbabili. Ma, siccome cerco di allargare sempre un po’ il campo, siccome ho vissuto e lavorato in UK, siccome sono laureata in lingue, a un certo punto mi sono chiesta com’è parlare di vino in inglese. Com’è uscire dal recinto delle degustazioni italiane. Ho frequentato due anni fa un corso di inglese dedicato ai sommelier, per apprendere i termini tecnici di degustazione. Ma un conto è arricchire il lessico – sempre meritevole e utile – un altro comprendere come un madrelingua degustatore usa le parole per raccontarti un vino. Ne ho avuto un’idea alla Modena Champagne Experience, e ho iniziato dalla migliore. Jancis Robinson, Master of Wine (comento di mia figlia: “Quindi, è tipo un’Avenger?”), una delle più note e influenti critiche e scrittrici a livello internazionale, teneva una degustazione per illustrare i futuri trend dello Champagne. Nota a margine: Jancis è stata così gentile da farsi intervistare mesi fa per il mio libro e mi ha raccontato, per esempio, di come lei continui ad amare le parole più delle immagini, quindi Twitter “anche se so che dovrei usare Instagram”. Ma lei è Jancis Robins e quindi può fare un po’ quello che vuole
A parte l’emozione di incontrarla e di mostrarle il mio libro, quello che ho imparato dalla sua degustazione è l’approccio quasi opposto a quello italiano. Inquadramento attento e vasto, ma focalizzato soprattutto sugli aspetti produttivi ed economici della regione vinicola più famosa al mondo. Secca e asciutta la degustazione: anche qui un’introduzione sui produttori, il terroir e la vinificazione. Nessuna notazione sul colore; poche e abbastanza generiche quelle sul bouquet olfattivo – tra i miei appunti trovo solo fruity, flowers, strawberry, raspberry, balsamic, poco altro. Più ricca la descrizione al gusto, anche se svolta in modo disomogeneo da vino a vino, come se la relatrice si volesse (anche giustamente) dilungare solo su quelli che meritavano di più. Una degustazione quindi molto poco didattica, molto poco tecnica, dove sono i vini a parlare più che il relatore. Difficile in Italia, dove a volte succede che l’ego ipertrofico di molti narratori del vino li porta a rubare il palcoscenico ai calici con iperboli, introduzioni infinite, aneddoti sentiti mille volte.
In ogni caso, al di là delle preferenze personali, non c’è un modo giusto o sbagliato, ci sono delle modalità che ogni relatore – o wine-writer – interpreta e fa sue, filtrate anche dallo stile personale, sia oratorio che di scrittura.
E quindi, siccome mi piace tanto studiare e mi piace ancora di più ampliare lo sguardo, a novembre frequenterò, a Verona perché mi è stato caldamente consigliato di farlo lì, il terzo livello del corso WSET – Wine & Spirit Education Trust. Ossia il corso professionale globalmente riconosciuto come il più completo e approfondito per conoscere, parlare, lavorare con il vino. Dove il mio approccio italocentrico verrà completamente stravolto (niente #Primagliitaliani, semmai il contrario; c’è il mondo vinicolo e poi c’è pure l’Italia), dove ascolterò e imparerò un nuovo modo di rapportarsi al vino e raccontarlo e dove, soprattutto, apprenderò nuove parole.
Io non vedo l’ora.