Una riflessione a margine del “caso” Vanity Fair esploso ieri sui social. Per chi non l’avesse seguito: Vanity pubblica sulla sua pagina Facebook il post che vedete sopra. A seguire, diluvio di commenti negativi, insulti, richieste di licenziamento, l’immancabile post di Selvaggia Lucarelli che stigmatizza l’accaduto e getta ulteriore benzina sul fuoco.
Poi, le scuse del direttore Luca Dini su Twitter, la scelta di non cancellare il post incriminato, molto corretta, a mio giudizio: cancellare un post che ha avuto quella risonanza – e lo dico in senso negativo, per fugare dubbi; non collaboro più con Vanity da qualche anno, ma dubito si rallegrino di questo tipo di attenzione – sarebbe stato peggio. I social media significano anche fare il nostro lavoro di giornalisti in un ufficio di cristallo: il meccanismo è nudo, gli screenshot alla portata di tutti, la rimozione di un post inutile.
Infine, una dettagliata spiegazione su Facebook, sempre del direttore, seguita da quella dell’autore materiale del post, il photoeditor Andrea Annaratone.
Non dico altro sul caso in sé: ognuno ha già detto e sta dicendo la sua. D’altronde oltre a essere un popolo di santi, poeti e navigatori sempre, occasionalmente presidenti del consiglio, allenatori della Nazionale e altre professioni alla bisogna, ci siamo anche scoperti un popolo di social media manager.
Vorrei solo fare una riflessione sull’importanza della parola scritta. Del testo. Che forse andrebbe recuperato.
Da quando esiste il web, non facciamo altro che sentirci dire di quanto sia importante l’immagine. Chiunque abbia lavorato in redazione online, piccola o grande, ma invariabilmente con il fiato sul collo delle metriche, sa cosa deve fare per gonfiare i dati e ottenere una pacca sulla spalla il giorno dopo. Photogallery. Video. Immagini potenti, dibattute. All’occorrenza, e le occasioni non sono mancate nel 2016, sangue. Vittime. Corpi.
Lo stesso Twitter, nato come piattaforma di microblogging, splendida palestra per imparare a scrivere testi efficaci e sintetici, ricorda: i tweet con foto e video generano 3-4 volte l’engagement di quelli testuali.
E quindi penso: non è che inseguendo i clic ci siamo dimenticati, stiamo trascurando, l’importanza del testo? Della parola scritta? Da scegliere, centellinare, usare correttamente, come già auspicavo qui? Perché, e qui torno al caso Vanity, è vero che la scelta delle due foto contrapposte è infelice, ma forse sarebbe stata tollerabile con un testo diverso. Che, ad esempio, avesse messo in contrapposizione la calma immutabile di un paesaggio alla tragedia umana. Tollerabile, dico; forse salvabile. Non certo la scelta perfetta, ma almeno mitigata. Per questo mi chiedo, chi ha scritto il testo? Il photoeditor, che si scusa, ma che al limite può essere (dovrebbe essere) responsabile solo della scelta delle immagini?
Siamo ancora al punto in cui i social media sono affidati a chi capita? A chi passa di lì? A chi ha altre specializzazioni, ma già che c’è può fare anche quello?
So tutto, ho visto tutto: la fretta, le risorse che mancano, la richiesta di sommare più competenze in un’unica persona, l’esigenza di fare il lavoro sempre più rapidamente, sempre più da soli, senza un altro paio d’occhi che controlla. Ma credo che in questo caso ci sia anche l’importanza sempre decrescente che stiamo dando alla parola scritta, a favore delle immagini. Ignorando, peraltro, segni che vanno in senso opposto. La rinascita del long form journalism. Il successo di piattaforme come Medium, dove è il testo a essere importante e le immagini, anche se grandi, belle e ricche sono un lussuoso contorno. La marcia indietro che stiamo innestando per tornare a un giornalismo e a un’informazione slow (anche in Italia). Il fatto che i lettori amino i video online, senz’altro, ma quando vogliono informarsi continuano a scegliere il testo.
I video che aggiungono immediatezza e impatto emotivo sono apprezzati e attesi dai consumatori di news sul web ma solo fino a un certo punto e in determinate circostanze. Sia gli adulti che i più giovani continuano ad apprezzare il controllo e la flessibilità del testo scritto.
Così si legge in The future of online news video, report del Reuters Institute for Journalism che ho usato tr ale fonti del mio libro. E in Italia, l’80% di chi si informa online preferisce ancora il testo.
Forse dopo l’ubriacatura di immagini, è il caso di tornare al testo. Di pensarlo, curarlo, sceglierlo. Fare editing, rileggere, modificare. Di non considerarlo più un accessorio dell’immagine. D’altronde, chi ha scelto come mestiere quello di narratore di storie e di interprete della realtà per conto terzi, lo ha fatto in gran parte perché si è innamorato della parola scritta.
Tra le tendenze che vedo per il 2017, tutte dello stesso segno ossia quello di un ritorno intelligente – alla condivisione più limitata e ragionata, alla discrezione, agli strumenti one-to-one, al silenzio, alla lentezza – mi piacerebbe vedere anche quella del ritorno alla parola.