“Vedo un’ondata di misoginia”, o cose del genere; non ricordo esattamente le parole, ma il senso era quello. Così Mark Renton descrive il mondo di oggi a Veronika in Trainspotting 2, prima di attaccare il nuovo monologo “Choose life”, rivisto e corretto.
Ecco, la vedo anche io l’ondata di misogina, vedo i rigurgiti sessisti, che non nascono certo in rete, ma in rete trovano un nuovo, più ampio, più facile canale di diffusione. Vedo soprattutto che non c’è più vergogna nel dirsi chiaramente maschilisti, sessisti, misogini: è saltata anche l’ultima vernice di ipocrisia.
Preso atto, spaventata dal dover crescere una figlia (già dieci anni fa, quando mi informarono circa i suoi cromosomi, il primo pensiero fu: “sarebbe stato più facile avere un maschio” e avevo ragione), ho raccolto qualche strumento per capire e poi parlare. Con mia figlia, soprattutto. Ma anche con me stessa.
L’avrete letto: uno studio su Science dice che, dopo i primi anni di vita passati senza percepire la minima differenza tra loro e i maschi, a sei anni le bambine iniziano a sentirsi inferiori ai compagni.
6-year-old girls are less likely than boys to believe that members of their gender are “really, really smart.” Also at age 6, girls begin to avoid activities said to be for children who are “really, really smart.”
Chi glielo fa pensare? I genitori, gli insegnanti a scuola, chi altro? Perché, a un certo, punto le bambine assorbono e replicano lo stereotipo che le vuole meno intelligenti dei maschi? Io non lo so, però mi ha fatto tornare in mente un’intervista che ho fatto a Barbara Laura Alajmo che indagava sui perché bambine e ragazze si sentano meno attratte dalle cosiddette materie STEM. Barbara – pedagoga, madre di tre figli – mi ha raccontato la sua esperienza con CoderDojo, i corsi di coding dedicati ai bambini dai 7 ai 17 anni che ha contribuito a fondare in Italia. Fino a una certa età, ha notato, non c’è differenza tra numero di bambini e bambine che frequentano gli incontri. Dopo i 10 anni circa, il numero delle bambine inizia a calare e più cresce l’età, più diminuisce. Motivo? Non si sa. Può essere non siano più interessate. Può essere anche che qualcuno abbia detto loro che non è roba per ragazze. Non inorridite: succede, ancora oggi, molto più spesso di quanto non si pensi e non solo per il coding.
Quindi, io cerco modelli. Cerco esempi. Li ho trovati nel libro di cui tutti parlano, il vendutissimo Storie della buonanotte per bambine ribelli. Mia figlia lo ha divorato, sembrava lo stesse aspettando da sempre. Non solo: me ne legge ad alta voce pagine e pagine, trattamento riservato solo ai libri “davvero importanti”. Capisco chi dice che dovremmo aver superato l’idea dei modelli “da bambine” e “da bambini”. Dovremmo, lo faremo, quando l’uguaglianza sarà una realtà. Quando modelli femminili di tutti i tipi e fuori dai soliti stereotipi non saranno l’eccezione, ma riempiranno i film, i racconti, plasmeranno i personaggi. Per ora, bisogna ancora andarli a cercare. Per ora, ragiono come con le quote rosa: non mi piacciono, ma le trovo, in molti casi, necessarie, perché la società non è ancora al punto in cui dovrebbe essere.
Modelli che ho trovato anche in Ragazze con il pallino per la matematica. Sarò ingenua io, ma continuo a pensare che leggere le vite di donne che sono andate controcorrente, che sono riuscite per prime a fare qualcosa di nuovo, a occupare un campo che, per consuetudine, non era il loro, sia molto importante per non porsi limiti. Per rifiutare di essere sminuita, trattata con sufficienza, zittita. No, non per diventare una matematica, una scienziata, chissenefrega di quello. Mia figlia farà quello che vorrà, ma lo farà solo se avrà ben chiaro che può aspirare a essere e diventare qualunque cosa (tipo una capra in matematica, come me).
Invece, per parlare delle differenze fra femmine e maschi mi è arrivata in soccorso Françoize Boucher, con la sua ironia e la sua chiarezza, direi quasi chirurgica, nel dire le cose senza girarci troppo intorno. Io e la novenne avevamo già letto, divertendoci molto, i suoi due libri precedenti, che spiegavano tutto sui genitori e sui libri stessi. Adesso sto ridacchiando sulla sua ultima uscita; forse è per bambine un filo più grandi della mia (o forse no, sono io che mi racconto pietose bugie pensando, volendo credere, che sia ancora piccola), ma è molto utile e, nello stile dell’autrice, fa molto sorridere. Attenzione: sfata pregiudizi, dice le cose come stanno, parla di sesso. Se non avete ancora fatto certi discorsi con i vostri fanciulli, maschi o femmine che siano, e non avete voglia di rispondere alla domanda “Mamma, cos’è un transessuale?”, sparata a tradimento a cena, regolatevi di conseguenza. A proposito, lo sapevate che le ostriche cambiano sesso ogni anno?
Infine, chiudo con qualcosa per me, per noi. Di questo libro probabilmente avrete sentito parlare quando è uscito con il titolo originale, Regretting Motherhood. Basta dare un’occhiata al titolo, appunto, in qualunque lingua, e viene da distogliere lo sguardo. È disturbante. E proprio per questo era dovuto. Bisognava parlarne. Era necessario che un testo nato come paper scientifico si allargasse fino a diventare uno studio sociologico, un tappeto tessuto dalle tante voci di donne che hanno raccontato il loro punto di vista. Il loro rimpianto. La sensazione, che molte madri conoscono, di aver perso per sempre la tranquillità, la serenità; di non poter fare più a meno dei loro figli, di amarli alla follia, ma di coltivare in fondo il rimpianto per l’esistenza “di prima”, libera da legami, ansie, aspettative, obblighi e paure.
Perché oggi tutto si può dire, tutto si può fare, tutto si può rimpiangere e tutto è perdonato, tranne il permettersi anche solo di pensare: “tornassi indietro, un figlio non lo farei”.
Io credo che l’8 marzo, oggi, serva anche a questo. A concederci il tempo di riflettere, di leggere cose con le quali magari non siamo d’accordo, o che ci disturbano, o che ci fanno male; ma che è importante che siano pubblicate e diffuse, per dare una voce a tutte. Credo che un libro del genere possa insegnarci a smettere di giudicare, ad accogliere tutte le voci. Magari ci riuscissimo davvero.
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