Per Grazia ho intervistato lo chef Antonino Cannavacciuolo, il Gordon Ramsay dell’edizione italiana di Hell’s Kitchen, Cucine da incubo (l’intervista è uscita la scorsa settimana, sopra l’apertura). Siccome è un generoso, estremamente diretto e aperto, da quello che mi ha raccontato ci sarebbe uscito un libro, altro che le 2.000 battute scarse dell’intervista. Per cui mentre stasera seguivo la trasmisione principalmente via Twitter, mi è venuta voglia di recuperare gli appunti e postare la versione completa.
È imponente e ha la barba nera di un Mangiafuoco. Quando lo osservi aggirarsi per le sale di Villa Crespi, lo splendido ristorante due stelle Michelin sul Lago D’Orta che lo vede ancora in cucina tutti i giorni con la sua brigata, quasi compatisci i ristoratori che si sono trovati tra le sue grinfie in Cucine da incubo, la versione italiana del programma con Gordon Ramsay. Poi gli parli, ti dice subito dammi del tu, si scalda, si commuove, non si ferma un minuto di raccontare e ti rendi conto che del cattivo ha solo il physique du rôle.
La cucina è la tua passione da sempre. Per questo in tv ti vedremo arrabbiarti, e anche tanto, con i ristoratori che servono piatti mediocri?
«Più mi arrabbio, più ci tengo. Se urlo, è perché devono capire che non si può fare ristorazione di qualità con 60 piatti nel menu e un solo chef in cucina: alla larga dai ristoranti con la carta infinita! Io sono empatico, mi scaldo, mi affeziono: è come se i problemi dei loro ristoranti fossero i miei. Li ho spinti a migliorare, a frequentare corsi di cucina; sono in contatto ancora con tutti e molti mi dicono “Ah, l’avessi conosciuto vent’anni fa!»
Sembri molto diretto e genuino: avere le telecamere puntate in faccia è stato un problema?
«Solo all’inizio: dopo le prime due puntate, per me le telecamere non c’erano più, c’ero solo io e i partecipanti i loro problemi i loro errori le loro situazioni di ristoratori in bilico.»
Oltre ai menu troppo ricchi, spesso sinonimi di scarsa qualità, qual è un grande male che affligge i ristoranti italiani?
«La gestione familiare improvvisata: apro un locale e chiamo il nonno e la zia ad aiutarmi, anche se non hanno alcuna esperienza. Intendiamoci, in Italia ci sono famiglie storiche di ristoratori che mantengono locali al top. Io mi riferisco però ad altro, ovviamente; al credere che bastino due braccia e un po’ di buona volontà per avviare un locale. In questi casi, ho cercato di aiutarli a migliorare, di dargli aspirazioni più alte. E in tanti mi ringraziano ancora» dice, e quasi si commuove.
Altri difetti da correggere?
«La cottura del pesce, senz’altro. Molti ristoratori lo propongono perché credono sia la cosa più semplice da preparare, ma non rispettano i tempi e ti servono branzini e molluschi stracotti, gommosi», tuona (non potrei essere più d’accordo: adorando il crudo o le cotture brevissime, il trancio di tonno della consistenza di una suola è il mio più grande terrore, al ristorante).
Parliamo di materie prima, ovviamente fondamentali. Hai dovuto ribadire anche il rispetto della stagionalità?
«Sicuramente, ma non dimentichiamoci, tutti, che la stagionalità non è solo per verdura e frutta, ma anche per il pesce. Nessuno ne parla mai, ma ci sono le stagioni giusta anche per il pescato, mica solo per i pomodori. Un branzino a luglio lo paghi il doppio e non è buono come adesso. Adesso si mangia branzino e palamita, a luglio ricciola e scampi. Facile, no?»
Per lui, forse; non per i ristoratori che vediamo in tv, al limite dell’osceno. Un problema che non lo riguarda; da quando, ragazzino, scappò di casa perché il padre cuoco non voleva che il figlio seguisse le sue orme, ha sempre cercato l’eccellenza.
«Dev’essere di famiglia: anche mio padre è scappato di casa da ragazzino perché voleva fare lo chef. Io a sette anni m’intrufolavo in cucina con lui. E a 16 decisi che avrei seguito le sue orme.»
E lui ne fu felice?
«Per niente! Diceva che è un mestiere duro, che richiede troppi sacrifici: una gavetta lunga, lavorare quando gli altri escono, durante le feste… Scappai di casa anche io, alla fine ha ceduto e mi ha detto: se vuoi cucinare, o lo fai alla grande, o niente. E l’ho ascoltato.»
Siccome sono fissata con le sinestesie e con quel delizioso libro che è Le Estasi culinarie di Muriel Barbery, dove uno chef in punto di morte cerca di ritrovare un sapore della sua infanzia, le mie interviste agli chef terminano solitamente con una domanda sul profumo e il sapore del loro passato. E spunta sempre fuori una mamma o una nonna. Così alla fine il personaggio che si avvia a diventare uno dei volti più noti (e probabilmente parodiati) della tv dei foodies s’intenerisce:
«Il profumo della mia infanzia? Quello del ragù napoletano di mia mamma, cotto per ore, che mi svegliava la domenica mattina. Potevi chiudere tutte le porte, ma s’infilava ovunque. E così, altro che caffellatte: andavo in cucina e la mia colazione era il fondo di una pagnotta svuotata e riempita di ragù caldo. Indimenticabile».
[…] vorrebbe Ramsay o almeno il nostro Cannavacciuolo. In quanti ristoranti li avreste mandati? Io in tantissimi. Perché sarà che quasi tutto quello […]