Mi occupo da anni di studiare e insegnare la comunicazione scientifica sul digitale e in particolare sui social media. Ogni anno, con gli studenti del Master in Comunicazione Scientifica della Sissa facciamo il punto su quello che è successo e quello che probabilmente succederà. Quest’anno accademico, che inizierà a metà ottobre, sarà particolarmente intenso, dato che la pandemia ha evidenziato ulteriormente l’utilità, ma anche i limiti del comunicare la scienza su queste piattaforme.
Recentemente ho raccolto molto materiale per una docenza alla Scuola di studi superiori in alimenti e nutrizione dell’Università di Parma, nell’ambito della Yakult Academy. Un seminario di comunicazione digitale particolarmente interessante per la sua intensa attività pratica sugli strumenti di comunicazione e rivolto a chi si occupa di alimenti e nutrizione, già prima del coronavirus uno dei settori target della cattiva comunicazione online, tra diete miracolose, spremute di limone anticancro e fantasie sul glutine. Ma che, con l’emergenza sanitaria, è stato ancora più bersagliato da sedicenti esperti che condividevano ogni giorno gli “alimenti giusti” per combattere il virus, quasi fosse un lieve mal di pancia.
Ora, approfittando del nuovo materiale raccolto, rispondo alle domande più frequenti che mi vengono rivolte in aula e che vedo girare online su come comunicare la scienza online.
Sono uno scienziato. Perché dovrei perdere tempo sui social media?
Perché sempre più cittadini cercano informazioni sulla salute online. Perché con il lockdown il tempo passato sui social media è ulteriormente aumentato: +31% in Italia secondo i dati Comscore. Perché basta dare un’occhiata al grafico di Google Trends sopra per capire dove le persone vanno a cercare informazioni mediche. Perché la rete è un ambiente e tenerlo pulito spetta a tutti noi, ognuno nel suo ambito, come ricorda il ricercatore Ivano Eberini:
I social oggi sono il posto in cui avvengono le conversazioni. Lasciare questo strumento non presidiato significa lasciare un vuoto in cui la disinformazione e il dubbio dilagano.
Quale piattaforma dovrei scegliere?
Quella o quelle che ti permettono di parlare direttamente con il tuo pubblico di riferimento. Sappiamo da tempo che l’età media su Facebook continua a crescere; che è più giovane (e più tecnologicamente avanzata) su Instagram e YouTube. Che YouTube per le nuove generazioni sta soppiantando Google come motore di ricerca. Che, infine, un manipolo di coraggiosi divulgatori sta sperimentando le potenzialità di TikTok. Come ricorda Dario Bressanini, attivo su Instagram, YouTube, Facebook e Twitter, in questo articolo di Wired:
I vari mezzi raggiungono pubblici diversi, per età e interessi, e hanno funzioni diverse. Facebook di fatto è diventato il luogo principale di discussione. YouTube però mi permette di raggiungere una ampia fascia di under 30 (e spesso anche under 18) irraggiungibili su altri social.
Sui social ci sono fake news e fuffa. Come posso fare la differenza?
Se credete di essere una goccia di saggezza in un mare di idiozie, e che quindi sia tutto inutile, pensate che Sir David Attemborough alla tenera età di 94 anni ha aperto (non lo gestisce lui in person, d’accordo, ma ci siamo capiti) un canale Instagram. Dubito gli interessi, ma ha distrutto il precedente primato di Jennifer Aniston sulla velocità nel raggiungere il milione di follower: 4 ore e 44 minuti contro 5 ore e 16. Lo ha fatto perché, come da testo che accompagnava il suo primo post, “Saving our planet is now a communications challenge. That’s why we want to share this message on Instagram. Because there is hope and together, we can inspire change.” (grassetto mio)
Oppure leggete questa bella intervista di Pietro Greco, giornalista scientifico e scrittore, su Scienza in rete che fra le altre cose dice:
… quella che oggi chiamiamo “infodemia” non è un argomento nuovo. Già nel ‘500 esistevano i cosiddetti “ciarlatani”, ovvero coloro che tramite la chiacchiera vendevano medicamenti e false guarigioni, verità protoscientifiche rispetto a quelle proposte da medici e studiosi. […]
Ebbene, anche l’esplosione del digitale sta portando caos, ma anche un’accelerazione della comunicazione indispensabile a mettere in contatto tra loro persone lontanissime: ha in pratica annullato lo spazio aprendo la strada a un dialogo senza vincoli. Dunque, se è vero che il rischio di diffusione delle cosiddette fake news è più alto, è però altrettanto vero che abbiamo ulteriori possibilità di difendere il sapere reale, dimostrato su basi scientifiche, attraverso un’adeguata educazione scientifica
Con che tono dovrei scrivere?
Sicuro, competente ma comprensibile. Con meno gergo possibile o spiegando il gergo, ove necessario. Soprattutto frenando l’istinto, se c’è, di far sentire chi legge un idiota. Sicuramente, tenendo a mente questa vignetta
Poi, aprendo sempre all’ascolto, alla conversazione e all’interazione perché i social network non sono una vetrina, non sono un megafono, non sono un palcoscenico. Lo ha notato bene Fabrizio Ronchetti in questo articolo su scienza e social media uscito su Domani il 19 settembre (grassetto sempre mio):
L’uso didascalico dei social da parte di intellettuali, scienziati e istituzioni scientifiche è modellato sull’utilizzo di post spesso autoreferenziali e sull’assenza di interazioni con gli utenti. Il risultato è una capacità di influenza praticamente nulla al di fuori della bolla degli «entusiasti».
E ancora, nei confronti dei colleghi, possibilmente non così (vignetta di Leo Ortolani)
Infine, se ancora avete dubbi su come comunicare la scienza per farvi comprendere da più persone possibili, se non da tutti, consiglio la checklist in 20 punti del docente di scrittura Roy Peter Clarke, tradotto qui dall’ottima Luisa Carrada. Ne ho selezionati alcuni, e l’ultimo punto vale per due: oltre a essere chiaro e corretto, sono anche interessante? Perché altrimenti, sarà difficile che il mio messaggio passi.
Come spiegherei il mio tema a una persona che conosco, intelligente ma NON esperta?
C’è del “carico pesante” — dati tecnici, numeri — che può essere tolto dal testo e collocato in un’illustrazione, un grafico, una lista?
Dov’è il gergo, il linguaggio tecnico degli esperti? Quali termini gergali possono essere evitati? Quali devono essere tradotti perché i lettori si impadroniscano dei codici segreti per la comprensione?
Se sottoponessi chi legge a un test a sorpresa, riuscirebbe a passarlo basandosi solo sulle informazioni che ho fornito?
Se il testo è chiaro, l’ho reso anche interessante agli occhi di chi leggerà?
Ma questo è un lavoro!
Sì, è un lavoro e neppure dei più facili. In un prossimo post condividerò le impressioni degli studenti che, come esercitazione, hanno gestito a turno per un mese una pagina Facebook e un account Twitter. Ma oggi è più che mai necessario che chi ha la conoscenza la metta in comune. Anche per creare progetti utilissimi come la mappa interattiva del sentiment sul coronavirus ottenuta dal Penn Medicine Center for Digital Health analizzando trai quattro e i cinque milioni di tweet al giorno. La trovate qui e spiega bene come, dopo la relativa calma dell’estate, l’ansia torni a monopolizzare il discorso. Qui trovate il racconto di come è stata realizzata.
Un lavoro simile è stato realizzato dall’Università della Georgia in collaborazione con i ricercatori della Oxford University e della Harvard Medical School. Sono stati raccolti più di 602 milioni di tweet per identificare i sintomi comuni condivisi da malati di Covid-19 a lungo termine, alcuni dei quali sono guariti dopo mesi.
Version 22 of the Twitter #COVID19 chater dataset! (https://t.co/f3eVS3v8St). is out now! Contains over 600 Million tweets. Downloaded over 25K times at #zenodo #tweets. #NLProc #MachineLearning #dataset #OpenData @NarcisoYu @ramyatekumalla @Guanyu_Herry pic.twitter.com/A2I2zqEsW5
— Juan M. Banda, Ph.D (@drjmbanda) August 10, 2020
E poi, se non lo volete fare per la comunità, fatelo per voi stessi. Twitter, così poco usato in Italia ma ancora molto vivace all’estero negli ambienti della ricerca, decuplica le possibilità di citazione e ricondivisione per un lavoro scientifico. Secondo uno studio del Journal of Medical Internet Research citato qui, i paper scientifici molto twittati hanno 11 volte in più la possibilità di essere citati.
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