Quando il lockdown era iniziato da poco – e sembrano passati a tratti pochi giorni o molti mesi: dipende dal momento – il primo sorriso dopo notti insonni e quella sensazione di claustrofobia che prende alla gola quando non mi sento libera di fare o non fare qualunque cosa, ad esempio muovermi – me lo ha regalato il sentire mia figlia dodicenne ridere di cuore perché, per la prima volta, avevamo organizzato una chat con i suoi compagni di classe, che non vedeva da quel 26 febbraio, ultimo giorno prima delle vacanze di Carnevale. Non ci avevamo ancora pensato: credevamo tutti che la situazione si sarebbe risolta in una manciata di giorni, la scuola avrebbe riaperto, business as usual.
Da quel momento ho pensato che i ragazzi ci salveranno. Più elastici, pronti a cambiare, meno schiavi di abitudini incrostate negli anni, già abituati a intrecciare relazioni a distanza, tra chat e video chiamate. Pronti a imparare a suonare il basso e la chitarra con i tutorial su YouTube e perfettamente a loro agio quando un video in diretta gli insegna una cosa per loro così inconsueta come fare il pane. Mille volte più veloci a reagire della scuola – e non parlo dei singoli docenti che, chi più chi meno, si stanno arrabattando per fornire un minimo di didattica online, su piattaforme obsolete scelte obbligatoriamente dalla scuola, senza alcuna formazione né direzioni chiare. Parlo proprio del sistema scuola che, spesso, anziché incentivare gli sforzi dei docenti in tal senso, li castra.
La mia amica Mafe dice che questo momento così difficile può essere un’opportunità. Pensarla così è il segreto di chi ha successo, in qualunque impresa, ma soprattutto di chi riesce ad attraversare questa vita con una certa leggerezza calviniana. Io la attraverso da sempre con uno zaino di sassi sulla schiena, per cui non riesco proprio a vederla così. Mi sembra come quando le cinquantenni (ci sono molto vicina, per cui empatizzo) dicono che i cinquanta sono i nuovi venti o i nuovi trenta. Ma per favore. Quindi, non sono brava a vedere luminose aperture nei tunnel. Sono molto più brava ad arredarmelo, il tunnel, e accoccolarmi aspettando che passi. Ma proprio per questo bisogna avere amiche che la pensano in modo così diverso da te. E non per bastiancontrarianesimo ma perché effettivamente riescono a smontare il giocattolo e a guardarci dentro. O sopra, o di lato. Perché se riesci a seguirle, anche con il tuo zaino di sassi sulla schiena, magari puoi scorgere la crepa attraverso la quale passa la luce.
Io lavoravo molto da remoto pure prima. Ma con grandi differenze, ovviamente. La mia vita lavorativa era una schizofrenia di treni presi all’alba, una città al giorno, ritorni quasi notturni per poter dormire a casa, alternati a giornate alla mia scrivania, coccolate, godute fino in fondo, quando la tuta era una liberazione e nessuno ti diceva di vestirti e truccarti comunque che se no ti deprimi (non lo faccio neppure adesso; non ci penso neanche e a proposito, fate un po’ come volete, iniziate a ignorare i consigli di vita di chi ne sa sempre più di voi). Tanto sapevo che da domani si ricominciava; altro treno, altra azienda, altre richieste, altra formazione. Nonostante l’abitudine, però, mi sono trovata spiazzata davanti a una nuova avventura lavorativa: insegnare al Master in Comunicazione per il settore enologico e il territorio all’Università Cattolica di Brescia. Felicissima di essere stata contattata; argomenti totalmente nelle mie corde, scaletta delle lezioni pronta da mesi. E improvvisamente tutto è saltato e non ho potuto neanche vedere una volta i ragazzi dal vivo, provare a conoscerli, vedere le aule, passeggiare per i corridoi dell’università. E loro imparare, magari, a fidarsi di me in quanto persona che poteva avere qualcosa da insegnargli. Con il Master a Trieste è andata meglio: iniziato a novembre, siamo riusciti a fare qualche lezione in presenza, hanno un’esercitazione da mandare avanti, io insegno lì da anni e conosco meglio l’ambiente. Qui si trattava di iniziare da zero e con questi ostacoli. Difficili da superare soprattutto per le esercitazioni che avevo immaginato, fatte di pomeriggi di lavoro di gruppo con la mia supervisione.
E allora ci siamo conosciuti in video lezione. Ci siamo, credo e spero, piaciuti, e insieme abbiamo ribaltato scalette e programmi e ho inventato un’esercitazione che ha particolare senso in questi giorni difficili di lontananza, anzi di social distancing che fa più figo. Abbiamo pensato di monitorare tutti gli esperimenti di applicare il digitale al vino, settore che sta soffrendo in modo particolarmente grave. Pensate a tutte le grandi fiere annullate – Prowein e, qualche giorno fa, anche Vinitaly. All’enoturismo, lanciatissimo in Italia lo scorso anno e ancora nei primi mesi del 2020, adesso completamente fermo fino a chissà quando. Alle degustazioni, che presuppongono vicinanza, scambio di sensazioni ed emozioni insieme, nella stessa stanza. Il mondo del vino però reagisce, si muove; con tasting virtuali, con idee per trasformare le fiere da luogo fisico a luogo virtuale, con l’ecommerce che cresce in maniera esponenziale grazie all’abbattimento dei costi di consegna e a offerte mirate per il periodo. Trovate qualche esempio qui.
Quindi la nostra esercitazione mi ha portato a creare Calici Virtuali, una pagina Facebook e un account Instagram dove raccogliere e promuovere tutti questi esempi virtuosi. Il logo – secondo me bellissimo – è di una studentessa, Giulia Aloi, che ha capito l’idea e l’ha tradotta in immagine in poche ore. Le mani sono quelle di tutti noi, il gruppo classe del master. L’obiettivo è quello di dimostrare che si va avanti, ci si reinventa, ci si volta sulla schiena come un gatto che cade dal tetto per atterrare sulle quattro zampe, si sperimentano cose che sembravano lontanissime solo pochi mesi fa. Di scoprire che, sì, forse c’è una crepa da dove passa la luce.
Andata a dare un’occhiata a pagina e account, se volete, e soprattutto segnalateci gli esperimenti di vino digitale che trovate in giro o che state facendo. Abbiamo tutti bisogno di esempi da condividere, da imitare, da migliorare, da fare nostri.
Lascia un commento